Esiste oggi una duplice forma di povertà: quella più tradizionale legata all’indigenza e una relativamente nuova legata all’opulenza. I giovani ne sono colpiti in modo particolare, ma il no profit potrebbe rivelarsi l’ambiente ideale in cui far crescere e responsabilizzare.
Si legge spesso di come la nostra società si stia sempre più polarizzando: da un lato persone sempre più povere e, dall’altro, persone sempre più ricche. Almeno a voler definire la povertà e la ricchezza solo in termini di disponibilità di risorse economiche e patrimoniali. In realtà non è difficile cogliere, nella nostra società, le evidenze di una duplice povertà: quella più tradizionale legata all’indigenza e quella relativamente nuova legata all’opulenza. Da un lato è abbastanza ovvio considerare povero chi non ha un alloggio o lo ha in forme precarie, o chi non può permettersi una alimentazione regolare ed equilibrata o la sicurezza di un reddito sufficiente e stabile per garantire nel tempo il soddisfacimento dei bisogni primari. Meno ovvio è considerare la povertà dal lato sociale, il lato di chi consuma in maniera opulenta senza essere mai soddisfatto e trascina la vita fra apericene, happy hours, vagabondaggi notturni, schiavitù tecnologiche più o meno palesi, esotismi vari: nell’alimentazione, nei viaggi alla scoperta del mondo, nel ricorso a forme alternative di medicina del corpo e dell’anima…
È impressionante considerare poi come queste due forme di povertà colpiscano in modo particolare proprio i giovani. Le statistiche ci rivelano un quadro alquanto sconfortante: le generazioni nate dopo il 1986 sono quelle più povere rispetto al resto della popolazione; la percentuale dei NEET (Not in Education, Employment or Training) italiani è la più alta d’Europa – 28,9%, oltre 10 punti percentuali in più rispetto alla media europea – il 66,4% degli italiani di età compresa fra i 18 ed i 34 anni è costretta a vivere ancora con i genitori per impossibilità a crearsi una autonomia, la media europea è del 48,1%.
Drammatica è la situazione del lavoro giovanile: contratti precari, pagamenti irregolari o con voucher, turni massacranti senza pause, retribuzioni che non raggiungono gli 800 euro mensili per operare poi in un regime di semi-schiavitù. E quel che più angoscia è che chi offre questo tipo di “lavoro” può anche permettersi di rivolgersi al malcapitato di turno minacciando il licenziamento e la possibilità di trovare decine di suoi pari pronti a prenderne il posto. Cosa purtroppo verissima, tant’è che molti che vivono questa semi-schiavitù tendono a definirsi addirittura fortunati rispetto ai propri coetanei che neanche riescono ad avere una opportunità.
Basta muoversi un poco per le strade e le piazze della movida e si incontrano sciami infiniti di giovani dediti a consumi opulenti, con bottiglie di vari alcoolici in mano, sigarette in bocca, e nelle tasche sostanze di ogni tipo. Giovani spesso intrappolati nelle reti dei social network, che esibiscono tatuaggi e corpi palestrati come prova del valore della loro persona. Giovani disposti a tutto pur di poter esibire, selfie alla mano, di aver visitato New York o la Tailandia. Giovani che hanno guardaroba più riforniti di un atelier di moda.
Giovani che sciamano insieme senza un’idea di futuro e le cui principali relazioni si reggono sul tentativo di ingannare per qualche ora l’angoscia di un presente insignificante.
Il mondo del lavoro sta frantumando la società, in generale, e i giovani in particolare. Chi non sta alle sue regole, viene subito espulso. Tanto, di sostituti se ne trovano a frotte! I fortunati, perdono il senso della comunità: bisogna guardarsi bene dal vicino che da un momento all’altro, approfittando di una difficoltà o debolezza, può soffiarci il posto. La rete sta frantumando le relazioni: diventano infinite quelle virtuali e sempre più problematiche quelle fisiche. Sono entrambe reali, ma nessuna delle due veramente e pienamente umanizzante.
Eppure sono proprio questi giovani, così frantumati, che, non avendo nulla da perdere, mettono in gioco il nulla che hanno e che sono, per creare dal niente un movimento globale come i Friday for Future o per forzare il blocco navale di uno stato sovranista per salvare vite disperate. E che dire dei tanti giovani che trovano il coraggio di ribellarsi allo status quo? Giovani che si impegnano in cause civili e sociali, nel volontariato, per la salvaguardia dell’ambiente, per la rivitalizzazione e l’animazione sociale e culturale dei propri territori. Giovani che provano a immaginare una politica per il futuro, e che provano a costruirlo orientati dalla coscienza ecologica e dal desiderio di giustizia sociale. Giovani che immaginano e costruiscono luoghi altri dove coltivare ragioni e passioni comuni. Giovani che rifiutano le regole ciniche e individualiste del capitalismo contemporaneo e che sono convinti che vivere vuol dire innanzitutto avere il coraggio di fare anche solo un centimetro di strada con qualcun altro al proprio fianco. Giovani che vogliono veramente imparare e che si trovano mortificati da una scuola che tende a valutarli sulla base delle crocette da apporre nei test Invalsi. Giovani che chiedono alle istituzioni tutt’altro che bandi e finanziamenti per le start up tecnologiche o a sostegno delle “idee geniali”. Giovani che non chiedono risorse per diventare “imprenditori di se stessi”, ma tempi e spazi per vivere insieme, sognare insieme, costruire insieme.
In tutto questo, credo che il no profit abbia delle responsabilità e delle potenzialità enormi. Per ovvie ragioni non saranno le imprese tradizionali a trovare le risposte adeguate a queste sfide. Né tanto meno possono farlo le nostre povere istituzioni pubbliche che ancora arrancano nel vano tentativo di digitalizzare e modernizzare procedure, modelli organizzativi e apparati di governo nati con le grandi rivoluzioni industriali e politiche del XIX secolo… e ormai sono passati due secoli, mentre le nuove generazioni sono proiettate, volenti o nolenti, in un altro millennio!
Il no profit, invece, potrebbe rivelarsi l’ambiente ideale in cui far crescere e responsabilizzare quei giovani che vogliono impegnarsi per il bene comune, che osano sognare una società coesa e solidale, che ritengono importante anzitutto impegnarsi in prima persona per prendersi cura dell’ambiente e dei più fragili.
È il no profit che potrebbe offrire loro le occasioni giuste per costruire forme di economia civile, di commercio equo, di sviluppo sostenibile. È il no profit che potrebbe diventare per loro una palestra di libertà, una palestra di uguaglianza nel rispetto delle differenze, una palestra di giustizia fondata sulla dignità e i diritti inviolabili di ogni uomo, una palestra in cui il futuro si costruisce sui legami di prossimità…
Ma, la cucitura fra giovani e no profit è tutt’altro che semplice! I pochi canali disponibili – Servizio Civile Universale, alternanza scuola-lavoro, tirocini, stage… – fanno intravedere più le ombre che non le luci del collegamento fra questi due mondi.
A mio parere la sfida non è neanche cominciata e non è detto che ci sia davvero qualcuno che abbia voglia di affrontarla. In fondo si tratta di due mondi che possono continuare a viaggiare ciascuno per proprio conto.
E non vi è dubbio che, se ciò avvenisse, a rimetterci sarebbe solo il no profit. È infatti inevitabile che, se ci sarà un futuro, esso sarà il tempio edificato dai giovani di oggi.
Daniele Ferrocino