Parlare, informare e sensibilizzare sulla violenza di genere è molto importante, ma per combattere il problema è fondamentale la prevenzione da attivare fin dai primi anni di vita.
Il 25 novembre si celebra la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essa rappresenta il momento più importante dell’anno per parlare, informare e sensibilizzare su questo grave problema.
La violenza sulle donne ha molti volti, dai reati come la violenza fisica e sessuale – lo stupro – alla violenza psicologica. Secondo gli ultimi dati ISTAT1 quasi 7 milioni di donne italiane dai 16 ai 70 anni hanno subito almeno una volta nella vita una forma di violenza. Gli atti di violenza possono avvenire ovunque: dentro le mura domestiche, sul posto di lavoro, per strada, ma spesso sono i partner o gli ex partner a commettere gli atti più gravi. Una lunga scia di violenze che può culminare con l’estrema conseguenza: il femminicidio. Nel 38% dei casi di omicidi di donne, il responsabile è, ancora una volta, il partner o l’ex partner.
Proprio quest’ultimo dato, che conferma il fatto che la maggior parte delle violenze avvengono all’interno delle mura domestiche, chiama in causa, ancora una volta, le relazioni familiari.
Per fronteggiare, dunque, quella che si presenta come un’emergenza all’interno delle relazioni, non basta più limitarsi a mostrare sdegno di fronte all’ennesimo fatto di cronaca, né limitarsi a sostenere le vittime quando il danno ormai è fatto. È necessario, invece, avviare un cambiamento culturale che si può realizzare solo partendo da un livello precedente, che è quello dell’educazione.
Questo è quanto raccomanda anche la Convenzione di Istanbul2 che, riconoscendo l’uguaglianza di genere come elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne, individua come cruciali educazione, sensibilizzazione e prevenzione. L’art.14 intitolato “Educazione”, in particolare, riporta: «Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi».
Quando cominciare ad educare alla non violenza?
Sin da piccolissimi, quando la conoscenza e l’individualità sono plasmabili, prima che le difficoltà mettano radici, che i modelli comportamentali si cristallizzino e gli stereotipi di genere prendano il sopravvento. Non dimentichiamo che tutti gli uomini maltrattanti e tutte le donne vittima, in un passato più o meno recente, sono stati bambini e bambine.
Chi deve educare?
L’emergenza della violenza sulle donne non può essere affrontata solo il 25 novembre, ma tutti i giorni dell’anno, e non si può pensare che non ci riguardi direttamente solo perché non viviamo personalmente il problema. Tutti, in quanto adulti, siamo chiamati in causa, perché, qualsiasi ruolo abbia, l’adulto è sempre un potenziale modello per il bambino, sia positivo che negativo. Tolte quelle situazioni in cui la violenza è conseguenza di una patologia – personalità borderline, psicotica o paranoide – nella maggioranza dei casi si tratta di un comportamento appreso nei contesti di vita del bambino, a cominciare dalla famiglia, in cui i comportamenti si apprendono prevalentemente per imitazione: interazioni familiari violente educano alla violenza.
Quindi genitori, insegnanti, catechisti, adulti: tutti siamo chiamati ad assumere consapevolezza delle nostre azioni, reazioni, convinzioni, perché i bambini ci guardano e imparano a conoscere il mondo e a muoversi nel mondo osservando noi. Il rispetto verso se stessi e gli altri non si insegna a parole o da dietro una cattedra, ma attraverso l’esempio. I bambini ci osservano e alla loro acuta sensibilità non sfugge nulla.
Su cosa intervenire?
L’Educazione emotiva
Partiamo dal presupposto che la violenza contro le donne non ha matrici passionali o amorose, ma è frutto dell’incapacità di gestire le proprie reazioni emotive e il bisogno di possesso e di controllo. Ma, affinché un bambino impari a gestire le proprie emozioni, deve prima imparare a conoscerle e a comprenderle. E noi genitori, spesso troppo occupati nel vederli mangiare, dormire, imparare a camminare o fare la pipì, andare bene a scuola o non fare mancare niente ai nostri figli, altrettanto spesso, dimentichiamo la loro crescita emotiva. Ma, i bambini provano emozioni molto forti, non raramente negative – rabbia, paura, vergogna – e il compito dei genitori è insegnare a riconoscerle e a superarle in modo positivo.
I bambini vanno aiutati a capire la rabbia, la gelosia, la fiducia in sé, la delusione, la sconfitta.
I bambini vanno ascoltati, aiutati a capire le loro emozioni dando ad esse dei nomi: «Questa cosa ti ha fatto arrabbiare… lo capisco», «Hai provato gelosia per… anche io la provo a volte per…», incoraggiamoli a parlare, “normalizziamo” le emozioni facendole diventare parte del nostro quotidiano. Un bambino che non impara a gestire questi sentimenti, se non ha avuto modo di imparare a reagire alla rabbia con modalità diverse dalla violenza, potrebbe diventare un adulto insicuro e violento.
Questo vale per i maschi, ma è importante anche per le femmine, perché anche in questo pesano gli stereotipi di genere che inducono a pensare che il maschio non abbia bisogno di esternare i suoi sentimenti e che sia normale per lui tenersi tutto dentro; non è raro, infatti che a un maschietto: si dica: «Non piangere come una femminuccia», lasciando passare inconsapevolmente il messaggio che essere una femmina è meno importante, che piangere sia una manifestazione di debolezza – se le femmine sono inferiori sono anche più deboli – laddove invece il piangere aiuta a elaborare le delusioni e i dispiaceri. E questo potrebbe indurre il maschietto a imparare a gestire dispiaceri e frustrazioni in altro modo: non potendo piangere i maschietti elaborano il dolore manifestando rabbia e si abituano a fare così anche crescendo, la logica conseguenza di questo è che quando diventano grandi e la ragazza li lascia, invece di farsi un bel pianto liberatorio, o cercare conforto in un amico, diventano violenti.
Saper litigare bene
Agli uomini violenti nessuno ha insegnato a litigare, ad ascoltare l’opinione degli altri, ad affrontare la divergenza, a tollerare un’opposizione alla propria volontà. In questo modo sviluppano una profonda incapacità a relazionarsi nelle situazioni critiche, esplodono e, da qui ecco scaturire la rabbia e la violenza. Meglio che imparino a litigare da piccoli! Potranno sviluppare competenze preziose per il loro futuro di uomini adulti! Ma, anche qui, serve l’esempio dell’adulto che si deve fare – d’obbligo – una domanda: «Come affronto le divergenze e i conflitti nella mia famiglia? Cosa vedono i miei figli?».
Indipendenza
Un bambino troppo dipendente dalla madre, da adulto cercherà nella compagna la stessa relazione di dipendenza, che potrebbe rivelarsi difficile da gestire in caso di separazione. Per questo motivo i bambini vanno abituati, sin da piccoli, a sviluppare graduali autonomie con il progredire dell’età e a gestire piccole separazioni: mandandolo in campeggio con i boy scout, iscrivendolo a un campus estivo, trascorrendo qualche giorno a casa di un amico. I maschi spesso fanno fatica ad accettare di essere lasciati dall’amata. Sin dalle prime delusioni d’amore è importante parlargli, stargli vicino, raccontando anche le proprie delusioni d’amore, spiegando che il dolore della perdita con il tempo passa ed è normale soffrire per questo ed evitando di parlare male della ragazza in questione. Il nostro compito non è dare giudizi, ma far sentire il figlio compreso.
Contrastare gli stereotipi
La battaglia contro la violenza sulle donne comincia con un insegnamento che la smetta di tramandare luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi; che ignora le infinite possibilità attraverso le quali una persona – maschio o femmina che sia – possa realizzarsi.
Questo può essere fatto, per esempio, spiegando ai bambini e alle bambine che non esistono ruoli di genere prestabiliti; che un bambino può desiderare di fare il ballerino e una bambina la calciatrice; che un papà può cambiare un pannolino e la mamma può riparare un rubinetto. Oppure ancora che un bambino solo perché deve “fare il maschio” non deve rispondere con la violenza se un compagno è aggressivo verso di lui.
Insegniamo anche che comportarsi “da femmina” non è segno di debolezza, ma che essere donna è bello, che in tutti gli uomini c’è un lato femminile e che questa è una caratteristica positiva, che va ascoltata e coltivata.
E poi impariamo ad abbandonare pregiudizi tanto radicati nella nostra cultura, che giustificano la violenza e la mancanza di rispetto verso le donne: lo sapete che per un italiano su cinque l’ironia a sfondo sessuale rivolta a una donna è accettabile? Che per un uomo su tre la violenza interna ad una coppia è una vicenda privata?
Che c’è ancora chi pensa che gli abiti provocanti chiamino violenza e che una donna che resta con un marito che la picchia se la va a cercare? Sono pregiudizi. Li trasmettiamo ai bambini mentre dovremmo far sperimentare loro che cosa significa avere rispetto per l’altro e che la diversità è ricchezza e non limite.
È necessario fare attenzione a non giustificare mai una cattiva azione, non si può dire con leggerezza a una bambina: «Ti fa i dispetti perché gli piaci» perché questo è un modo di dire che tende ad associare i maltrattamenti e le molestie, anche lievi, con l’amore romantico, mentre il cattivo comportamento è un cattivo comportamento, a prescindere dal motivo per cui viene agito.
Bisognerebbe, al contrario, chiedere al bambino di immaginare come si è sentita la vittima dei suoi dispetti e aiutarlo a trovare modi più adeguati ed efficaci per dimostrare le proprie attenzioni. Agendo così si perseguono più obiettivi, che sono: favorire lo sviluppo dell’empatia – tanto carente nell’uomo maltrattante – stimolare il bambino a trovare nuove soluzioni per risolvere le difficoltà o soddisfare i propri bisogni e insegnare sia al maschietto, sia alla femminuccia che la violenza non va mai confusa con l’amore.
Nell’educazione dei bambini alla non violenza va considerato un ultimo concetto: l’importante ruolo della figura maschile. Il fatto che si parli di violenza di genere, non vuol dire che sia un problema solo del genere femminile. Normalmente, infatti, si pensa che il tema della violenza sia connesso a quello dell’uomo macho. È vero invece l’opposto: gli uomini violenti hanno un deficit di virilità e di riferimento paterno.
Nel caso di questi uomini il padre era sostanzialmente assente, i figli ne hanno conosciuto solo il lato duro e si è formato in loro un bisogno profondo di devozione e conferma che da piccoli non hanno trovato. Da adulti lo cercano nella partner femminile, ma se questo bisogno non è soddisfarlo neanche nella coppia spesso si trasforma in violenza. La virilità, tuttavia, è un’altra cosa: è la capacità di farsi rispettare rispettando gli altri; è una fermezza profonda; un coraggio particolare nell’affrontare la vita. La sua genesi è educativa e i genitori, soprattutto il padre, hanno un ruolo fondamentale per il suo sviluppo.
Non si tratta di essere “il padre amicone”, divertente, che non si oppone mai, è necessario “il padre paterno”: che mette limiti; che incentiva l’autonomia; che stimola l’esplorazione della vita e il sostegno della fatica; che aiuti la tendenza a una maggiore fisicità da parte dei maschietti a non trasformarsi in violenza. La virilità è una questione di argini, limiti e sponde. Il ruolo paterno, inoltre, non è importante solo per il bambino, ma anche per la bambina.
L’atteggiamento del papà è importantissimo anche per la crescita della figlia femmina. Un padre che valorizza la figlia con apprezzamenti sia estetici che intellettuali dà forza alla bambina, e lei si sentirà apprezzata dalla parte maschile della famiglia e, probabilmente, da grande cercherà relazioni con uomini che la stimano davvero ed eviterà situazioni di sottomissione.
E, quando il padre non c’è, questo ruolo paterno lo deve assumere la madre!
Per concludere: crescere figli autonomi e responsabili e non bambini annoiati da tutto, con la vita facile e le difficoltà azzerate, è un primo passo fondamentale, in generale, per la crescita e, in particolare, per la prevenzione della violenza, perché… La nostra identità dipende dal riflesso che ce ne danno gli altri.
Dottoressa Anna Mazzotta
1. Dati ISTAT aggiornati al 1° semestre 2019.
2. La Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne è uno strumento internazionale giuridicamente vincolante, redatto dagli Stati membri del Consiglio d’Europa l’11/05/2011 e approvato dal nostro Parlamento nel 2013.